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Epilogo bonus: “Love you like that” di Federica Alessi

Sei anni dopo l’epilogo di Love you like that

Hudson

Guardai i presenti, cercando con gli occhi la ragazza che era la causa delle mie notti insonni. A volte non volevo addormentarmi, temendo di avere quei fottuti incubi ricorrenti, quindi cercavo il più possibile di restare sveglio. Sognavo lei. Lei che veniva assalita da quel bastardo di Dylan McCaffrey, lei che usciva dalla residenza femminile e veniva accoltellata in un angolo buio del campus. Rivivevo quell’episodio ma i ruoli erano invertiti. Avevo subìto nella realtà, da quello che un tempo era stato il mio patrigno, un’aggressione che per poco non mi aveva fatto perdere la vita. Alcune notti mi svegliavo di soprassalto, sognavo che a subìre il colpo era Jamieson. Lo rivivevo e sembrava così concreto da risultare spaventoso e angosciante allo stesso tempo. Lei… Non una ragazza qualunque, la mia. Mia moglie per essere precisi. Quei brutti sogni mi facevano pensare a come sarebbe stata la mia vita senza di lei.

Senza Jamieson al mio fianco sarei stato un corpo vuoto e solo.

La cercai a destra, a sinistra, in ogni direzione. 

Vidi gli amici tutti presenti, i miei compagni di squadra che avevo invitato per festeggiare insieme il giorno dell’Indipendenza, alcuni con mogli e figli al seguito, altri single, chi puntuale e chi meno, ma erano tutti qui.

«Dov’è finita Jamie?» chiese mia sorella avvicinandosi con un vassoio di tartine, porgendomelo per prenderne una, mentre anche lei come me si guardò intorno. I miei occhi caddero sul suo addome tondo, era all’ottavo mese di gravidanza. Zane l’aveva messa incinta, era andato a segno al primo colpo. Tra circa un mese avremmo visto il visino di Hawke Anderson e udito i suoi vagiti, anche se il giorno in cui sarebbe venuto al mondo sembrava non arrivare mai. Eravamo tutti curiosi di conoscerlo e di tenerlo tra le braccia, di proteggerlo e amarlo solo come un nucleo unito era in grado di fare. Non importavano i legami di sangue, ma la famiglia che ci eravamo scelti.

Jamieson e io provavamo ad avere figli da un paio di anni, ma qualcosa sembrava averci punito. Diventare genitore non era nei miei piani. Giocavo da otto anni in una squadra della nfl, i Detroit Lions, ero alla soglia dei trent’anni e credevo di non essere pronto, di non essere all’altezza per diventare un papà. Quindi, era l’ultimo punto nella mia lista di desideri da realizzare. L’unico esempio di padre che avevo mi aveva maltrattato più volte e sebbene fossi consapevole del fatto che non sarei mai stato quel tipo di uomo, una parte di me era spaventata ed essere attorniato da figli di colleghi o amici non aiutava, anzi faceva aumentare il bisogno di averne uno tutto tuo. Jamieson mi aveva aiutato a capire che ero una brava persona, dovevo solo crederci e quando realizzai di esserlo, dopo anche varie sedute di psicanalisi, allora ero andato da lei e le avevo detto che volevo fare un figlio. Volevo diventare un padre ed essere completo insieme a lei.

Da quel giorno ci provavamo ogni giorno… Ed ero giunto a una conclusione. Ero convinto al novantanove percento di essere io la causa dell’espressione triste dipinta sul volto di mia moglie che le leggevo ogni tanto; nonostante tutti i controlli svolti, nonostante i medici mi avessero assicurato che in me non c’era nulla che non funzionasse, nonostante lei non mi addossasse alcun tipo di colpa ero certo di essere stato maledetto. E riuscivo a immaginare chi avesse potuto farmi una cosa simile. 

Mi confortava pensare a quest’alternativa invece che alla sconfortante realtà dei fatti.

Guardai il vassoio e feci una smorfia. Non avevo appetito, lo stomaco mi si era chiuso e il cuore aveva preso a martellarmi alla stessa velocità con cui andava la mia Miura quando, un tempo, gareggiavo clandestinamente sull’asfalto.

Il panico stava per prendere il sopravvento. 

Jamieson non spariva mai senza dire nulla. Mai. Non si allontanava mai dal mio fianco. Mai

Avrei atteso ancora una manciata di minuti, poi sarei andato a cercarla. Avrei perlustrato la casa da cima a fondo, il quartiere o la fottuta città se necessario.

Non risposi alla domanda che mi aveva posto mia sorella, invece lessi l’ora sul mio smartwatch: erano passati solo un paio di minuti dall’ultima volta che lo avevo guardato. Chi se ne fregava del tempo, mi mossi dirigendomi in casa.

«Jamieson» la chiamai entrando in cucina. Regnava il silenzio, si sentivano risate e musica provenire dal retro, dove si stava svolgendo la festa. Presi le scale che portavano al piano di sopra e ripetei il suo nome, questa volta aumentando il tono di voce. Restai in ascolto e nell’assenza di rumori udii un singhiozzo provenire dalla nostra camera da letto e tra me e me ringraziai quel Dio in cui non avevo mai creduto.  Sostenevo ancora di non meritarmi Jamieson McCaffrey, anche se lei aveva un’opinione diversa rispetto alla mia. Ma era qui e nessuno dei miei incubi aveva preso vita. Mi mossi veloce, spalancai la porta e la trovai, in lacrime, seduta sul pavimento ai piedi del letto, tra le mani stringeva il suo cellulare e potevo immaginare quale comunicazione avesse ricevuto. Il mio cuore ebbe una fitta dolorosa nel vederla così spezzata. Ingoiai il groppo che avevo in gola ed espirai l’aria che non mi ero accorto di aver trattenuto. 

«Looney» dissi una volta in ginocchio ai suoi piedi per avvolgerla tra le mie braccia e stringerla forte contro il mio petto. Le sue mani si aggrapparono a me, e diventammo un’unica cosa. Tra noi non sarebbe filtrato un raggio di luce nemmeno a pagarlo.

«Mi dispiace» mormorò, come se fosse stata colpa sua, contro il mio petto, alcuni istanti dopo essersi tranquillizzata. 

Il pianto era scemato lentamente, i minuti erano trascorsi con altrettanta lentezza. Avevo visto la testa di mia sorella spuntare dalla porta della stanza, il suo viso rivelava una leggera preoccupazione, ma com’era arrivata per controllare che stessimo bene, se n’era anche andata chiudendosi la porta alle spalle. Lasciandoci soli nella nostra bolla. 

Avrebbe preso lei in mano le redini e sostituito i padroni di casa. Ne era in grado.

«Per cosa?» domandai accarezzandole i capelli.

«Per non riuscire a darti un figlio» rispose. La strinsi di più a me. Era così dolorosa tutta la sofferenza che stavamo affrontando.

«Non scusarti, sono felice di ciò che ho, piccola» la rassicurai per la centesima volta. Lei era il mio desiderio più volte espresso e che si era realizzato, e quello mi bastava. Ovviamente non potevo negare che mi sarebbe piaciuto avere dei piccoli pargoli che gironzolavano per casa, questa villa in stile vittoriano aveva abbastanza stanze per una squadra di football. Ci avevo fantasticato sopra molte volte su quel visino irraggiungibile. Immaginavo che lei o lui avesse il sorriso di mia moglie, la stessa sfumatura dei suoi occhi e la sua bontà d’animo, il colore dei miei capelli e la mia forza… Nel caso, avremmo sempre potuto adottarne uno o optare per prenderne in affidamento, per donargli tanto amore e un futuro differente da quello che il destino gli aveva riservato. Avevamo già preso in considerazione quella possibilità. «Con te mi sento completo» aggiunsi posando un bacio sul suo capo.

«Ti amo» disse. 

«Anch’io ti amo» ricambiai.

«Sono felice per Savannah e Zane, non fraintendermi, ma anche triste per noi. Per ciò che non potremmo mai avere, ed è tremendamente difficile essere attorniata da donne in stato di gravidanza o da donne che sono diventate mamme» riprese poi. «Vorrei solo che tutto questo tormento cessasse di esistere, vorrei un luogo solo mio e tuo».

Ero impotente, purtroppo non avevo alcuna capacità per far cessare il suo dolore, ed era frustrante. Potevo condividerlo con lei, consolarla, cercare di assorbirne una parte, distrarla, ma la sua sofferenza non era pari alla mia, era moltiplicata.

«Ci riproveremo» dissi. Volevo dannatamente darle tutto ciò che desiderava.

Il sesso negli ultimi mesi era stato quasi meccanico, facevamo l’amore per un determinato scopo. Ci impegnavamo nell’atto senza essere spontanei, ma forzati. Le volte in cui era naturale e sconsiderato avveniva dopo un litigio.

Dire che mi mancava scopare selvaggiamente faceva di me uno stronzo?

Probabile… Ma non potevo farci nulla, perciò non giudicatemi.

«Per un po’ vorrei che tornassimo a essere spensierati» mi comunicò, quasi fosse riuscita a leggermi nel pensiero senza guardarmi negli occhi. Ma Jamieson aveva una sorta di dono nel capirmi e nel recepire i miei pensieri taciuti.

«Che ne dici se partissimo per una vacanza in Europa la prossima settimana?» proposi. Lei inclinò il capo per guardarmi. Avevamo abbastanza soldi da parte da potercelo permettere. Essere un giocatore della nfl aveva i suoi vantaggi e anche il lavoro che svolgeva lei ci assicurava un’entrata retributiva che ci permetteva di godere di un certo benessere economico. 

«Voglio essere qui quando tua sorella partorirà» rispose, invece di accogliere entusiasta la mia offerta.

«Lo sarai».

«E se dovesse aver bisogno di me, e se Zane fosse fuori casa?» volle sapere. 

In realtà non avevo una risposta a tutti quei “e se”.

Si divincolò dalla mia stretta per alzarsi in piedi e dirigersi nel bagno comunicante con la nostra stanza per osservarsi allo specchio. Era scarmigliata e a mio parere era bellissima. Una cosa che amavo di lei era che non si vergognava affatto di mostrarmi le sue debolezze.

«Jamieson» la apostrofai. «Sei troppo paranoica. Savannah starà bene, Hawke aspetterà il ritorno dalla vacanza della sua zia preferita, e mia sorella non sarà da sola in caso Zane non sia nei dintorni, non dovrai dare di matto» cercai di rassicurarla. Restò in silenzio. «Dimmi che ci penserai» insistetti.

«Se ti rende felice, va bene, ci penserò» disse dal bagno per accontentarmi.

Santo cielo, mi faceva venir voglia di sculacciarla quando sfoggiava quell’atteggiamento distaccato. Mi alzai e la raggiunsi. Era davanti allo specchio intenta a raccogliere i capelli per legarli in una coda alta.

Aveva gli occhi gonfi, il viso arrossato, le labbra piene, l’aria maledettamente triste, il cuore spezzato; e io volevo baciarla, possederla, farla mia.

Cosa avevo di sbagliato?

«Cristo, le cose che vorrei farti in questo momento, looney» espressi ad alta voce la mia smania. Lei non si voltò, si tese. L’unica cosa che ebbe uno spasmo furono le sue iridi azzurre che incrociarono le mie iridi cerulee.

La vidi deglutire. Poi parlò: «Abbiamo degli ospiti al piano di sotto».

«Credi che mi importi?» chiesi. «Senza pensieri, ricordi?»

«Stai cercando di attirarmi usando le mie stesse parole contro di me?» Non risposi, mi limitai a osservare la sua espressione come se trovasse ridicolo ciò che volevo e che sapevo voleva anche una parte di lei. Restai a osservare quella donna, stordito. Quella bellezza bionda mi mandava in confusione. Attesi il suo cedimento e mi trattenni dall’allungare una mano per afferrarla e avvicinarla a me, lasciai vagare il mio sguardo su di lei. Scosse il capo e voltandosi con tutto il corpo verso il sottoscritto disse: «Sei bravo». Stava funzionando, trattenni un sorriso. «Ma non così bravo» continuò infastidendomi, sfiorando quel nervo sensibile e scoperto che sapevo di avere, ma che avevo affinato per il bene di coppia, facendo spegnere quel sorrisino che mi si stava per formare sulle labbra.

«Rimangiati subito quello che hai appena detto o te ne farò pentire» sibilai prima di annullare la distanza tra noi, tirandola contro il mio corpo. Le feci sentire cosa mi aveva provocato sfidandomi. Volevo che avvertisse il mio desiderio.

«Hudson». Il tono di voce con cui il mio nome lasciò la sua bocca aveva il suono di una supplica. 

Era consapevole del destino a cui stava andando in contro?

«Troppo tardi per la tenerezza, looney» la informai posando le mie mani sui suoi fianchi per allontanarla di un passo da me. «Spogliati» ordinai, lei strabuzzò gli occhi. Guardò alle mie spalle, così chiusi la porta per avere più privacy e per renderla più tranquilla, non mi infastidiva che potessero sentirci, ma in giardino non c’erano solo degli adulti, erano presenti anche dei bambini. Perciò… La guardai. Volevo farle cose indecenti. «Sai che non piace ripetermi» le ricordai.

Indietreggiò e con calcolata lentezza iniziò a liberarsi degli indumenti che indossava.

Ero completamente fottuto. Amavo renderla vulnerabile.

«In giardino c’è un tavolo pieno di cose da mangiare» parlò e percepii una leggera nota esitante nel tono della sua voce.

«L’unica cosa, in questo momento, che voglio è la tua dolce figa, preferibilmente nella mia bocca» dissi inginocchiandomi. Aveva il viso in fiamme e gli occhi spalancati per la mia schiettezza, come se fosse stata la prima volta che mi sentiva usare un linguaggio volgare. Con un gesto rude le strappai il triangolino che indossava al posto di un paio di vere e proprie mutandine. Questo finì sul pavimento. Mi lanciai su di lei come un affamato, senza darle il tempo di contestare sui miei modi bruschi. «Sei così bagnata e ricettiva» constatai leccando i suoi umori. Lei ansimò ed emise un urletto. «Ssh». La assaporai e la lambii prima di infilare un paio di dita tra le pieghe umide della sua intimità. 

Perse leggermente l’equilibrio, così mi interruppi, e lei protestò. Mi misi in piedi e la sollevai per farla sedere sul ripiano del lavandino. Dopodiché mi spogliai in fretta e furia, il bisogno di raggiungere l’appagamento facendo sesso in maniera impetuosa mi invase ogni parte del corpo, le allargai le gambe e la penetrai con un unico gesto deciso. Stavamo scopando, mi era mancata così tanto tutta questa disinvoltura. Era stupendo avere la mente libera dai pensieri che ci opprimevano e ci tenevano svegli la notte. Il mio membro dentro di lei si sentì subito a casa. Era calda, accogliente, mia. La baciai prima sulle labbra, poi le marchiai la pelle del collo e lasciai qualche segno sul suo seno. 

«Oddio, ti prego» espresse con voce bisognosa e incline all’orgasmo.

«Insieme» imposi. La guardai frantumarsi lentamente sotto i miei occhi, aumentai il ritmo fino al punto in cui l’apice del piacere travolse entrambi.

Inutile dire che al piano di sotto – per stare in compagnia degli amici che avevamo invitato per festeggiare insieme il 4 luglio – non scendemmo mai.

***

Due mesi più tardi

«Stai borbottando da un po’, si può sapere di cosa blateri?» mi domandò Zane. 

Il problema dei legami, quelli saldi e indissolubili, era che dovevi sempre rendere conto a tutti. Ognuno di noi era al corrente di ogni dannata cosa sugli altri. Non c’era un solo attimo o un solo posto in cui potevi restare per conto tuo a pensare o avere una vita privata degna della definizione stessa. Non si conoscevano limiti. Era bello e preoccupante parallelamente.

Quel giorno ero particolarmente nervoso, stavamo aspettando l’ennesima risposta dal centro di fecondazione assistita alla quale da tempo ci eravamo rivolti e i miei insulti erano tutti indirizzati al personale della clinica. Il telefono avrebbe dovuto squillare alle nove di questa mattina, erano le tre del pomeriggio e ancora taceva. L’attesa mi stava uccidendo ed ero andato in un centro di utensileria e bricolage ad acquistare tutto il necessario per costruire una casetta di legno e far sì che mi distraesse. Avevo commesso il grave errore di chiedere aiuto a mio fratello, visto che per la nascita di suo figlio si era regalato un pick-up con tanto di cassone spazioso al posto del bagagliaio, adatto a caricare le assi di legno. Le nostre mogli erano dentro casa, all’esterno si iniziava a respirare aria autunnale e Hawke aveva solo un mese di vita, non potevamo rischiare di fargli prendere un accidente.

«Di niente» risposi secco. Zane era abituato ai miei sbalzi d’umore, era qui ed era venuto a farmi un favore e io lo stavo tagliando fuori trattandolo in malo modo per via del mio caratteraccio che ogni tanto si metteva ancora in mostra.

«Oggi sei particolarmente stronzo» constatò.

Beh, ne ero consapevole, ma quello non mi fermò dal farmi detestare un pochino di più.

«Grazie per l’aiuto, ora vattene» ordinai brusco senza guardarlo, scacciandolo via.

«Richiamami quando ti sarà passata, idiota» rispose di rimando, gettando l’avvitatore nella cassetta degli attrezzi.

Sbuffai e ripresi a intrattenermi. Quando finalmente restai solo, circa venti minuti dopo sentii Savannah, Zane e il piccolo Hawke andarsene.

Adoravo la quiete. Rimasi in giardino vicino la quercia che sul tronco aveva l’iniziale del mio nome e quello di looney, a costruire quella casetta per Hawke e i figli dei nostri amici che ora facevano parte della nostra vita. Mi lasciai cullare dal cinguettio degli uccelli e dal frinire dei grilli. Inspirai ed espirai tutta la tranquillità che riuscivo ad assorbire in breve tempo.

«Tesoro». Era quasi giunta la sera quando il suono dolce della voce di mia moglie, che mi chiamò con quel nomignolo affettuoso, mi rivelò la sua presenza. Ero troppo pensieroso e preso dal mio hobby improvvisato per accorgermi di chi ci fosse nei paraggi. Smisi di colpire le teste dei chiodi con il martello e mi voltai a guardarla. Nel vedere le sue guance rigate di lacrime mi si strinse il cuore e ogni parte di me si irrigidì. «Forse avrei dovuto chiamarti papà» pensò a voce alta. 

Il sangue mi pulsò nella testa. Che cazzo aveva appena detto?

«Che cazzo hai appena detto?» espressi.

«Sono incinta» rispose, il sorriso occupava tutta la metà del suo viso.

Mi precipitai verso lei, abbandonando tutto il resto sul terreno ancora erboso, per posare un bacio sulla sua bocca. Risucchiò l’aria e la sentii singhiozzare e ridere al tempo stesso sulle mie labbra. Tremavamo entrambi e non per il freddo di fine stagione, ma per l’adrenalina, per la gioia, per quella scintilla di speranza che aveva preso vita dentro di lei.

Interruppi il bacio e le inclinai il capo per osservarla, aveva un paio di lacrime agli angoli degli occhi che brillavano di felicità.

«Sarai una mamma» dissi con voce spezzata quando smisi di stringerla e baciarla.

«E tu sarai l’eroe del nostro bambino» disse di rimando. 

Chissà se sarei stato il papà di Lenora McCaffrey o di Larsen McCaffrey o di entrambi, pensai. Speravo solo di esserne degno. Avevamo scelto i nomi prima ancora di sapere se potessimo o meno diventare genitori, prima di scoprire il sesso di quello che ora aveva il volume di un mirtillo e pesava circa mezzo grammo. Non mi importava se fosse un maschietto o una femminuccia, se fosse uno o se fossero due, quello che contava davvero era che fossero in salute, che nascessero sani e crescessero forti. L’importante era essere un buon padre, un amico discreto, un ottimo confidente. Un padre che sarebbe cresciuto con loro e che di sicuro non avrebbe commesso gli stessi errori di quello che lo aveva mortificato e mantenuto fino alla maggiore età o dell’altro che si era chiamato fuori quando aveva visto che la situazione era maledettamente complicata da gestire.

«Ti amo» le dissi.

«Ti amo anch’io» ricambiò i suoi sentimenti nei miei confronti. «Hai finito?» volle sapere indicando con un cenno del capo quello che c’era alle mie spalle.

«Per oggi sì e non ho intenzione di prendere in mano un martello per un po’» La sua fronte si increspò. «Ho altre cose in programma» spiegai ammiccando. 

Il sorriso che ancora non aveva abbandonato il suo volto, se possibile, si allargò maggiormente.

«E queste cose cosa prevedono?» domandò audace.

«Me e te in tante posizioni» risposi. Probabile che quella creatura l’avessimo concepita a luglio, quando l’avevo fatta mia nel nostro bagno, sul ripiano del lavandino.

«Prima, però, devi prendermi» aggiunse prima di scivolare lontana da me e fuggire per cercare un nascondiglio. Le piaceva questo gioco. Alla fine, comunque, la trovavo sempre e ribattezzavamo ogni angolo della casa. 

Vincevamo entrambi, la punizione era soddisfacente.

Le lasciai un po’ di vantaggio prima di seguirla, giusto per farle credere che sarebbe stata in grado di scappare da me e di mimetizzarsi, la guardai correre e poi sparire al piano superiore. In casa regnava un silenzio piacevole, carico di elettricità prodotto dalla nostra gioia. Restai in ascolto, mi concentrai. Credeva di essere furtiva, ma non lo era affatto, non lo era mai. Ed era perfetta così. Amavo Jamieson più di quanto avessi mai amato me stesso. Ed era mio compito proteggerla fino al mio ultimo respiro. E amavo già alla follia quell’esserino che portava in grembo. L’avrei protetto con le unghie e con i denti e con la vita stessa se necessario.

Un leggero rumore seguito da un’imprecazione sottovoce ruppe il silenzio e annunciò la fine del gioco. Ridacchiai tra me e me.

«Trovata!» esclamai aprendo la cabina armadio.

«Oddio, ma come fai?!» protestò spuntando da dietro gli indumenti appesi. 

Non c’era da essere sorpresi.

«Piccola, quando giochiamo ad acchiapparella hai la stessa grazia di un elefante in un negozio di porcellane». La punta del suo nasino si arricciò in segno di disapprovazione e mi misi a ridere. Lei non lo trovava affatto divertente. «Pronta, signora McCaffrey?» chiesi guardandola. Bramavo di farle tante, tante cose. Mi stavo trattenendo a stento, santo cielo. «Jamieson» la incitai a rispondermi. Mi guardò negli occhi e annuì. «Che il castigo abbia inizio» conclusi prima di afferrarla per attirarla a me.

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